Podcast

James Brown

Questa è una trascrizione dell’episodio che si può ascoltare (insieme con le canzoni inframezzate al parlato) sul mio podcast, “Groove Stories”, a questo link:


Introduzione, ovvero: di rivolte bloccate, e posti di blocco violati

Gli epiteti sono soprannomi gloriosi desinati solo agli uomini che hanno lasciato il segno, come:

  • Achille “pié veloce”,
  • Lorenzo “Il Magnifico”,
  • Patton il “generale d’acciaio”…

E anche James Brown ne aveva diversi, di epiteti:

  • “Mister Dynamite”,
  • “Il padrino del soul” (“The Godfather of Soul”),
  • “L’uomo che lavora più duramente nel mondo dello spettacolo” (“The Hardest Working Man in Show Business”)

…e altri ancora.

Tipicamente, le persone con epiteto hanno vite clamorose.

E qui, beh… non si fanno eccezioni.

Se infatti per raccontare il James Brown artista bastano le decine di hit che ci ha lasciato, esistono due precisi momenti per spiegare invece il James Brown uomo.

Il primo: 5 Aprile 1968.

Il Nostro ha 34 anni, e si appresta a tenere un concerto alla Boston Garden Arena.

I quindicimila biglietti, pari all’intera capienza della struttura, sono andati esauriti in un attimo.

Ma c’è un problema però.

Il giorno prima hanno ucciso Martin Luther King junior, il reverendo King.

Ad ammazzarlo, è stato un criminale con la pelle bianca, James Earl Ray, con un colpo di fucile da caccia.

Il paese è una pentola a pressione sul punto di esplodere: la popolazione afroamericana digrigna i denti, pronta a scendere in strada per menare le mani. Qualcuno a Boston pensa: concentrare tutte quelle persone di colore in un unico luogo, è come avere un lago di benzina e poi buttare un cerino acceso.

Ma James Brown convince il sindaco di Boston ed il suo entourage, che il concerto si deve fare. Anzi: bisogna trasmetterlo anche in diretta televisiva! E’ una cosa inusuale, per quei tempi.

Quando sale sul palco, il Padrino dice:

“Non facciamo niente che disonori la memoria del reverendo King!”.

E poi comincia il suo spettacolo.

Ebbene, non ci fu alcun problema: né al Garden (a parte qualche scalmanato sul palco) né da nessun’altra parte. Le strade di Boston sembravano quelle di una città fantasma, dal silenzio che c’era. La musica funk di James Brown aveva bloccato la rivolta, almeno per una sera.

Ma abbiamo parlato di due aneddoti, per spiegare la vita “da montagne russe” di James Brown uomo.

Il secondo aneddoto è datato 24 Settembre 1988.

Il Nostro, 55 anni, irrompe in un ufficio adiacente al suo luogo di lavoro, ad Augusta, Georgia.

E’ fuori come un balcone: ha una pistola in una mano, e un fucile a pallettoni nell’altra. Ordina a tutti di andarsene immediatamente. Li accusa di aver utilizzato la sua toilette privata.

Qualcuno chiama la polizia; e quando gli agenti arrivano, James Brown fugge col suo pick-up.

Ne nasce un inseguimento alla O.J. Simpson, con tanto di posto di blocco… che il Nostro – sicuramente sotto l’effetto di sostanze psicotrope – provvede a forzare:

“Lo aggirai senza fare una piega, senza pensare neanche per un momento che stessero cercando proprio me. Pensai che un tizio dovesse aver svaligiato dieci banche, per come i poliziotti si erano sistemati, lampeggianti accesi e fucili imbracciati”.

Gli agenti lo affiancano, lo bloccano, gli intimano di uscire dalla macchina. Il Padrino, diligentemente, si ferma; ma poi riparte sgommando. (Dirà più tardi che alcuni poliziotti bianchi avevano frantumato coi manganelli i vetri del suo pick-up, e quindi era fuggito, temendo per la sua vita).

Dopo che alcuni tiratori scelti fanno saltare le gomme del pick-up, James Brown termina la sua corsa dentro ad un fosso.  Viene tratto in arresto, incolume.

Sarà condannato per aggressione aggravata e violazione posto di blocco: sei anni, da scontare nel penitenziario dello stato della Georgia.

Ecco: questo, era James Brown.

Una vita di “alti” molto “alti”, e di “bassi” molto “bassi”.

Ed anche: una vita molto più complicata della sua musica essenziale e strutturata.

Una borsa nuova di zecca

James Brown fa il suo ingresso nel mondo il 3 Maggio 1933 in una capanna a Barnwell, nella Carolina del Sud. Ingresso subito traumatico: dichiarato nato morto dai dottori, se la cava per il rotto della cuffia.

La famiglia è poverissima: stiamo del resto parlando del sud rurale durante la Grande Depressione. Il padre Joe sbarca il lunario come può, ad esempio abbattendo alberi.

Quando il piccolo James ha quattro anni, la madre Susie abbandona lui e il marito per legarsi ad un uomo con una migliore posizione sociale. “Il bambino?” , dice a Joe, “Tenilo tu”. **James non la rivedrà per i successivi vent’anni. E la mancata accettazione  – dapprima come figlio, e poi come uomo di colore –  giocò sempre un ruolo fondamentale nella vita del Padrino.

Papà Joe è continuamente a caccia di un lavoro qualsiasi di giorno e di notte, e non può più occuparsi del bambino. Lo manda quindi dalla zia Honey e dai cugini, ad Augusta, Georgia.

James ha quindi cinque anni quando fa il suo ingresso in una casa che pullula di bambini (ce ne sono altri sedici, tutti scartati o non voluti dai disastrati parenti della zia), prostitute, droga, e liquore distillato clandestinamente.

La zia Honey vive al limitare del “terry”: abbreviazione dispregiativa utilizzata per indicare quello che poco prosaicamente veniva definito il “territorio dei negri”.

Il “terry” è un ambiente spietato e crudele, dove non mancano le temute marce del Ku Klux Klan in lenzuola bianche, e naturalmente non esiste alcun sussidio o assistenza pubblica per l’infanzia.

Il piccolo James impara ben presto anche ad usare i pugni. E se la cavava egregiamente, pur essendo “tarchiartello”. Come scrisse molti anni dopo nella sua autobiografia:

“I piccoli sono più rapidi e violenti, proprio perché gli altri sono più grossi”.

Deve lasciare la scuola (si dice che fu rimandato a casa per “vestiario insufficiente”, e poi ci si domanda come mai – quando divenne famoso – vestiva clamorose tute di lustrini e paillettes) lascia insomma la scuola perché bisogna guadagnare qualcosa per la zia Honey ed i suoi cugini. Uno dei suoi primi “lavori” è adescare i soldati di stanza nella vicina base militare di Daniel Field, per portarli alle ragazze della casa. E poi non mancano la raccolta del cotone e il lucidare di scarpe, ovviamente.

Fortunatamente, esiste anche la musica. James ha imparato a ballare il tip-tap per spillare qualche soldo ai passanti; e inizia a frequentare le chiese battiste della zona, soprattutto per la musica gospel. A dodici anni forma anche un suo gruppo, il Cremona Trio.

Ma la galera minorile è solo questione di tempo. Il sedicenne James Brown viene condannato per furto e spedito per tre anni in riformatorio. Quando esce, le prova tutte: anche una sfortunata parentesi sportiva con il baseball, interrotta da un grave infortunio Ma per fortuna sua e nostra, decide di perseguire solo la musica. Diviene membro di un quartetto vocale, gli Ever Ready Gospel Singer, mostrando subito un illuminante e straripante talento.

Siamo intorno alla metà degli anni ’50, e la band ha già preso il nome di James Brown and the Famous Flames, col Nostro voce solista.

I talent scout non tardano molto a notare quel tarchiato cantante nero che si muove come fosse spiritato, e taglia i vetri con la voce.

Nel 1956, i Flames incidono il primo singolo di successo con la voce di James Brown: “Please please please”, ballata pianistica di impronta doo-wop che vende tre milioni di copie.

Segue, nel 1958, un’altra hit devastante: “Try me”.

Ma i dischi sono solo la pallida emanazione di quello che il Padrino sa fare sul palco, dove offre ai suoi spettatori un’esperienza totale. Urla, spaccate, cadute sulle ginocchia, balli frenetici sulla punta di un tacco, giravolte al limite delle leggi della fisica, prestazioni vocali impressionanti, energia a livello “12” su “10”.

Nel 1962, Mister Dynamite si esibisce all’Apollo Theatre di New York. Niente più locali del Chitlin’ Circuit – le bettole del profondo sud dove si servivano piatti a base di interiora di maiale – ma il locale più noto al mondo per quanto riguarda gli spettacoli di musicisti afroamericani, ad Harlem, nella Grande Mela. E’ un’opportunità imperdibile. James Brown ha un’intuizione: bisogna farne un disco. E finanzia da sé la registrazione: 5700 dollari di allora.

Sa che deve fare una performance impeccabile, e lui va anche oltre: quando scende dal palco, pesa tre chili in meno.

Il disco vende un milione di copie: numeri mai sentiti prima, per un album di musica nera dal vivo.

Adesso, il Padrino può fare virtualmente quello che gli pare.

E arriva subito la svolta vera. Non quella dei soldi e della fama – faceva già soldi a palate, anche se poi il fisco glieli tolse quasi tutti – ma quella artistica, quella che ti inserisce dritto dritto dritto nella storia della musica.

Nel 1965, infatti, James Brown registra “Papa’s got a brand new bag”: “Papà ha una borsa nuova di zecca”.

Il funk

“Papà ha una borsa nuova di zecca”! Ma non si parla di accessori, bensì di nuovi approcci alla vita, allo stile… basati su due soli accordi.

“Papa’s got a brand new bag” è, fondamentalmente, il primo (e direi vigoroso) vagito del funk.

Ecco: nella storia della musica, la creazione di un “genere” ex novo è cosa piuttosto rara… privilegio di pochi artisti dal calibro elevatissimo.

James Brown in effetti può essere considerato – insieme a Sylvester “Sly” Stone – l’inventore del funk. Dopo di lui sono arrivati allievi che in qualche modo hanno eguagliato il maestro; ma prima di lui, il funk semplicemente non esisteva.

Ma che cosa è il funk?

Nella sua accezione più dialettale, il termine inglese “funk” ha il significato di “odore pungente” o addirittura “fetore”. Musica odorosa, insomma… che però, e più che altro, pone l’accento sul ritmo che accompagna le melodie, e non tanto sulle melodie stesse. Un approccio abbastanza alieno alla tradizione classica europea, e mutuato (in America) da quella africana, come già nel caso del blues ed il jazz.

James Brown, nella sua autobiografia, spiega molto bene il concetto dell’Uno, “The One”, sul quale si basa “Papa’s got a brand new bag” e tutta la sua musica.

Dice: anziché porre l’accento sul secondo e quarto tempo della battuta, che è l’approccio tradizionale, “The One” lo pone sul primo (appunto) e il terzo.

Si potrebbe pensare che l’Uno sia una struttura troppo rigida, troppo vincolante, troppo castrante.

Ma in realtà, sono spesso i vincoli a permettere le migliori espressioni artistiche… Come la cornice del quadro o il mirino della macchina fotografica, che costringono il pittore o il fotografo a ritagliare la porzione più efficace di realtà. Come dice James Brown:

“Finalmente potevo comporre e cantare una canzone su un solo accordo o al massimo due”.

A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, comunque, James Brown diventa una vera e propria macchina da guerra. Sforna una serie impressionante di hit. Come “I got you (I feel good)”, “Cold sweat”, “Say it loud I’m black and I’m proud” (ne riparleremo tra poco), “Sex Machine”, “Super bad”, “Hot pants”… sempre supportato da una altrettanto impressionante “Music machine”, ossia la sua band.

Band che, comunque, è soggetta ad una disciplina analoga a quella del Sergente maggiore Hartmann, l’inesorabile istruttore di “Full Metal Jacket”.

Il Padrino ha un suo sistema: il bastone, e… il bastone.

Per dire, commina multe salate a chiunque cicca anche una sola nota.

Ma questo è il meno.

Bootsy Collins – bassista nella seconda generazione di quella band, chiamata “The J.B’s” –  racconta che, una volta, Brown gli intimò di suonare “meno note”… appoggiando semplicemente una pistola sul suo amplificatore.

Questo metodo militaresco garantiva una performance perfetta – con tempi sincronizzati al sessantaquattresimo lungo tutta la durata dei brani – ma poneva anche una considerevole pressione sui musicisti. Specie considerando che, oltre tutto, venivano pagati in modo alquanto discontinuo.

Ma la band, però, è per James Brown solo un mezzo e non un fine. Questa affermazione, tratta dalla sua autobiografia, spiega tutto:

“A dirla tutta, sul palco mi porto più gente di quella che mi serve davvero: se pure ne tagliassi gran parte, nessuno si accorgerebbe sul serio della differenza”.

Quando, nel Marzo 1970, buona metà dei musicisti – tutti artefici di quel sound, come il sassofonista Maceo Parker e il chitarrista Jimmy Nolen – si stanca della rigidissima disciplina e se ne va sbattendo la porta, il Nostro non fa una piega.

Recluta una band di sconosciuti ragazzini capitanati dal bassista diciottenne William “Bootsy” Collins (lo abbiamo già incontrato) e suo fratello chitarrista Phelps Collins detto “pescegatto”, e con quelli scodella niente popò di meno che un pezzo devastante come “Sex Machine”.

Black power

Ora però dobbiamo parlare di politica.

E’ quasi cosa indispensabile, dato che la storia di tutti gli artisti è sempre legata a doppio filo con il contesto che stanno vivendo. E, a questo punto del nostro racconto, siamo nell’America a cavallo tra gli anni sessanta e settanta: periodo fertile e turbolento.

Abbiamo menzionato, all’inizio, l’episodio di Boston del 1968: James Brown – all’indomani dell’omicidio di Martin Luther King – tiene un concerto pacificatore trasmesso in tv. L’intera città si sintonizza sul funk, e non scende in strada a menare le mani.

Ma James Brown è anche – come dire? – un po’ paraculo: se da un lato predica calma, dall’altro semina tempesta – se ciò lo aiuta a far vibrare determinate corde di consenso.

E’ il caso di un brano inciso proprio nel 1968: “Say it loud I’m black and I’m proud” ossia “Dillo forte: sono nero e ne sono fiero”.

Da lui stesso definita:

“Una delle più perfette performance funk che io abbia mai eseguito”,

La canzone strizza l’occhio (per usare un eufemismo) al movimento dei diritti civili degli afroamericani e alle Pantere Nere. Le primissime parole sono:

“With your bad self”, ossia “Col tuo Io cattivo”.

E poi:

“Siamo stanchi di battere la testa contro il muro e lavorare per qualcun altro”, dice il testo.

E poi ancora:

“Preferiremmo morire in piedi, piuttosto che continuare a vivere in ginocchio”.

Un bello schiaffo al mainestram! Ed anche la prima volta in cui, nella musica nera popolare, si fa così esplicito riferimento al rancore afroamericano… In modo ferocemente funky.

Inutile dire che il Padrino, però, con questa canzone, si gioca anche una fetta considerevole del pubblico bianco.

E comunque quello tra la politica e James Brown diventa un rapporto alquanto complicato… in cui a rimetterci è sempre e solo lui.

Come quando, nel 1972, si prodiga per la rielezione del presidente Nixon… e riesce a farsi odiare sia dai neri sia dai bianchi (“James Brown Nixon Clown!” si sente urlare da ambo le parti).

Se la politica è un disastro, la musica continua a premiarlo.

Solo una cosa, in questo ambito, può fermarlo.

E lo fa, eccome se lo fa: è la disco music! Ovvero “l’epoca della palla a specchio”, come la chiama lui… che va dritta dritta verso l’edonismo degli anni ’80.

La musica disco è molto altro da quella di James Brown – anche se ne riprende i canoni.

Tanto per cominciare, è completamente spogliata di ogni significato sociale.

Poi, è arricchita da arrangiamenti barocchi e piacioni, con intere orchestre a produrre suadenti tappeti di violini.

Insomma: Bee Gees stanno a Mister Dynamite come il caviale sta al pollo fritto. Ma la gente, evidentemente, adesso s’è stufata del pollo fritto.

Naturalmente il Padrino ha ancora i suoi estimatori; ma sono ormai inversamente proporzionali alla pancia che cresce nelle sue clamorose tute aderenti… ormai osbolete, di fronte alle camicie col collo a punta ed le giacche nere eleganti di Tony Manero.

Se poi ci mettiamo: i problemi col fisco; la difficoltà a cavar fuori dal cilindro nuove hit; i drammi coniugali (non ne abbiamo parlato, ma James Brown ebbe tre mogli ed altrettante vite di coppia all’insegna della violenza e delle denunce); il boicottaggio delle stazioni radio per via del suo impegno politico… Ecco che tutti questo contribuisce a mettere Mister Dynamite sul viale del tramonto.

A dente di sega

Gli anni ’70 si congedano, e lui ha smesso di essere rilevante.

O quasi!

Perché, in seguito, riesce comunque a ritornare in sella per due volte, facendo ricordare a tutti che lui era ancora e sempre lì, sul pezzo.

La prima volta accade nel 1980, quando John Belushi e Dan Aykroyd lo vogliono nel ruolo del reverendo Cleophus James nella pellicola cult “The Blues Brothers”. Sono sicuro che lo ricordate tutti.

La seconda volta accade con “Rocky IV”, nel 1984. La sfavillante “Living in America” – sono sicuro che anche questa la ricordate – si può ascoltare prima del combattimento tra Rocky e Ivan Drago.

Quattro anni dopo quella performance,  e come abbiamo raccontato all’inizio di questo episodio, James Brown sfonda un posto di blocco della polizia… e diventa il detenuto numero 155413 presso lo State Park Correctional Institute nella Carolina del Sud.

Il declino si fa precipitoso. Esce dopo tre anni per buona condotta, e torna a calcare i palchi… ma il panorama musicale è nuovamente cambiato, e la sua voce ormai si sente quasi solo nei brani campionati dei cantanti rap.

Siamo ormai arrivati alla fine di questa storia.

Possiamo però ancora raccontare che, nel 2003, James Brown viene insignito al Kennnedy Center for Perfoming Arts di Washington del Premio Kennedy, conferito solo a coloro che si sono distinti particolarmente per il loro contributo all’arte e alla cultura.

Riceve il premio davanti ad una platea in gran parte composta da bianchi, che si spellano le mani solo per lui. E’ raggiante: nella sua autobiografia, ricorda questo momento come uno dei più importanti della sua vita.

Finalmente, James Brown è stato accettato.

Conclusione

E’ la notte del 25 Dicembre 2006.

James Brown ha 73 anni, e attraversa l’Ultimo Ponte.

All’inizio di quell’anno, il suo entourage si era allarmato perché – per la prima volta nella sua vita – aveva dato forfait prima di un concerto.

Doveva essere qualcosa di maledettamente serio.

Tumore alla prostata, infatti.

Al mondo, James Brown ha lasciato molto più dei suoi tanti figli biologici (undici, quelli da lui riconosciuti).

E mi riferisco a tutte le generazioni successive di musicisti – neri e non – ciascuno dei quali è un ramo di quell’albero che ha in Mister Dynamite le sue radici.

Discutibile, per molti versi, l’uomo James Brown; indiscutibile il suo lascito artistico. Succede spesso, lo sappiamo, in tutti i campi dello spettacolo e dello sport.

Che cosa rimane?

Beh, spero che questo racconto abbia aiutato in qualche modo a spiegarlo.

Bibliografia

  • “I feel good” (autobiografia), James Brown, ed. Minimum Fax
  • “Funk: la musica, il ritmo, i protagonisti”, Rickey Vincent, ed. Odoya
  • “James Brown – Mr Dynamite: The Rise Of James Brown” (documentario televisivo)
  • Pagine internet varie

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *