Passioni,  Riflessioni

Mister Semiminima

Questo testo è tratto dal capitolo di un “non-libro” che ho scritto negli ultimi mesi (un po’ tribolati, in effetti). Lo chiamo così perché dubito vedrà la luce; ma è ampiamente autobiografico, quindi credo che meriti un piccolo spazio in questo mio blog. La musica è una delle mie passioni più “brucianti” e come tale tendo a viverla in modo molto personale: credo che il testo ne renderà conto.


Collego il jack della mia Fender Stratocaster alla pedaliera, attivo l’accordatore, e verifico l’intonazione. E’ quasi perfetta.

Alla mia destra, Roberto regola i tamburi della sua batteria, e controlla il funzionamento del suo amplificatore per le cuffie. Proviamo nel suo garage, che è attrezzato di tutto punto come un vero e proprio studio di registrazione.

Ancora più a destra, e quasi di fronte a me, sta Felice: uno spilungone alto che suona un bellissimo Fender Precision di colore sunburst. Sta regolando l’asta microfonica, perché – oltre a suonare il basso – fa i cori e canta un paio di pezzi.

Accanto lui, la voce solista: Lorella. E’ una bella donna, con un caschetto biondo e un fisico invidiabile stante l’età. Sta soffiando nella cannuccia di una bottiglia («brhrhrhrhrhrhr!….») e dice che l’aiuta a scaldare le corde vocali.

Io controllo il computer che usiamo per mandare in ascolto le basi. Infatti buona parte della band è “virtuale”: tastiera, fiati, percussioni e cori, sono tutti registrati sulla base. Dal computer esce anche un segnale di metronomo, che arriva al batterista e gli consente di andare a tempo. Sembra una cosa complicata, ma in realtà mi sono divertito parecchio ad implementarla: ho sempre avuto un animo un po’ nerd.

Questa sera va meglio, nel senso che sono più attento; ma qualche settimana prima ero continuamente distratto dal cellulare e dai messaggi. Ormai è però passata un po’ di acqua sotto i ponti, ed ho smesso di controllare ossessivamente la sottiletta elettronica.

«Vai col tanga!» mi dice Roberto. Intendendo: fai partire la prima base, che cominciamo.

“I want your love” è uno dei miei pezzi preferiti degli CHIC: il primo brano della scaletta.

Nile Rodgers, il chitarrista della band newyorkese, è un’autentica istituzione nel mondo della musica disco e funk, nonché il mio personale riferimento musicale. La sua ritmica in questo pezzo è paradigmatica del suo stile: pennate di accordi in sedicesimi, piene di ghost notes. La sequenza è sempre quella, ma adoro suonarla tutte le volte: LAm7, Mim7, FA7+, REm7, MIm7.

Quando cominciamo, noto subito una volta di più che questa band è a due velocità.

Io e Roberto siamo precisi, quadrati, puliti, e soprattutto essenziali. Il funk ha esattamente questa caratteristica: le note che non suoni, contano molto più di quelle che suoni; e se cerchi di strafare, il troppo stroppia, e inevitabilmente deprimi l’energia del pezzo (il “groove” come viene anche chiamato). Io e Roberto siamo, in questo senso, una macchia perfettamente sincronizzata – forse perché cerchiamo l’aderenza al disco originale.

Lorella invece non trova mai la giusta intenzione. E’ brava, Lorella: ha studiato canto e si sente, è intonata e dotata di un ottimo vibrato. Ma ha un’impostazione troppo “bianca”, fatta di note strascicate e interpretazione piatta: pare Orietta Berti che canta Tina Turner. Questi pezzi non vanno “appoggiati”, ma “strapazzati”! Gliel’ho fatto notare spesso… ma si schernisce tutte le volte: «E’ che non sono nelle mie corde!». Ma allora perché accetti di cantarli, dico io?

Felice, il bassista cantante, è sicuramente il ventre molle della band. Si impegna molto, devo dargliene atto: non è facile adoperarsi col basso e al tempo stesso cantare. Però ha un modo di suonare antitetico a quello richiesto dal genere. Felice è un bassista rock: tante note, perlopiù lunghe, che coprono tutto… e non sempre a tempo. Il mio amico Pino (bassista anche lui, ed al quale ho fatto ascoltare alcune nostre registrazioni) lo chiama “Mister Semiminima”, perché suona il basso come colui che getta una secchiata di acqua sul fuoco del cowboy: produce un sacco di fumo e spegne ogni calore. Con la voce, poi, se la cava pure peggio: convinto di cantare bene, stecca spesso e si mangia le parole. Anche qui, io – che ascolto e suono black music da 30 anni – ho cercato più volte di fargli notare le sue carenze; ricevendo come risposta che «Provaci tu!, a cantare e suonare insieme!». Ma mica te l’ha prescritto il medico, però.

Il problema è che lui e Roberto sono amici. Anzi, è stato proprio il secondo a chiamare nella band il primo. E allora succede che, non appena io comincio a fare le mie puntualizzazioni, Roberto si erga ad avvocato del diavolo e minimizzi… come se fossi io ad essere eccessivamente pignolo. «A me pare invece che sia venuta bene!» è ormai il suo classico leit motiv.

Comunque, mi concentro sulla Stratocaster e cerco di trovare il mio flow suonando “I want your love”. A tratti mi diverto, perché comunque il pezzo mi piace un sacco e mi sento gratificato. Poi però torno inevitabilmente al “qui ed ora” ed alla prestazione globale della band, e comincio a notare una quantità di storture da riempirci un container.

Quando il pezzo finisce – ed è abbastanza lunghetto, sette minuti – sono tutti contenti e soddisfatti. Tutti tranne me.

Prossimo pezzo, “Superstition”: voluto fortemente da Felice, e da lui cantato.

E’ un brano che, pur bellissimo, mi esce da ogni orifizio inferiore e superiore… avendolo eseguito migliaia di volte. Si tratta di un funk classico, suonato e cantato da uno dei talenti più cristallini mai prodotti nell’ambito dell’etichetta Motown (Stevie Wonder) e che presenta un caratteristico ed ipnotico riff di tastiera clavinet. Questo aspetto – cioè quello di un riff che si ripete ed “aggancia” l’ascoltatore per tutta la durata del brano – è un classico del funk: si definisce “hook”, cioè uncino appunto. Il basso, nel disco, si limita a fare poche note di contrappunto, proprio per lasciare spazio a questo “hook”. Felice invece fa le stesse note del clavinet, e fuori tempo: ne deriva una marmellata di suoni che finisce per rendere noiosissimo il pezzo. Fa anche di peggio con la voce, Felice: mio cugino al Karaoke di Gianni in via Montegrappa avrebbe fatto di meglio.

Si illumina il mio telefono: è una notifica. Ne leggo l’anteprima sul display: è Pino. «Come sta andando, con Mister Semiminima?». Lasciamo perdere.

Quando finisce il pezzo, io comincio a contare le piastrelle del muro per evitare di partecipare alla festosa esultanza degli altri, e dire quello che penso. Loro, sembra che abbiano appena finito di suonare al Budokan di Tokyo davanti a diecimila persone.

Ma io sono consapevole del mio problema!, col quale mi misuro da quando suono la chitarra: l’essere estremamente esigente. Mi diverto solo se si “suona bene”, e non se si “suona e basta”. Gli altri no: a loro basta fare baracca e sparare note spesso a sproposito. Io ho troppa stima ed amore verso questo genere, per sentirlo suonato così.

Dopo una decina di pezzi, la chitarra comincia a farmi dolere la spalla sinistra. E’ una delle mie migliori (ne ho una decina) ma pesa moltissimo, col suo corpo così massiccio. Sono sempre stato un fenderiano in generale, e un patito della Stratocaster in particolare: la mia prima chitarra fu proprio una Strato “made in Japan” nera, acquistata da Tommassone a Bologna quando era ancora in via Petroni. Ce l’ho anche oggi, sebbene l’abbia fatta riverniciare di rosso. Quella che sto suonando è invece stata assemblata dal mitico liutaio Finelli, chiamato anche “L’Anarchico Finelli” perché ha un carattere abbastanza focoso. Gli ho portato il manico – originale, col terminale “a pallettona” anni ‘70 – e lui ci ha messo il resto, compresa una verniciatura da urlo “sunburst”. E’ costata un botto, perché l’Anarchico non è economico; ma suona divinamente, perché l’Anarchico è un artigiano coi controcoglioni.

E’ mezzanotte, e io devo tornare a Sasso Marconi: domani è un giorno lavorativo.

«Ragazzi, ho ancora un pezzo di autonomia» ammonisco.

Decidono per “Ain’t nobody” di Chaka Khan insieme ai Rufus. Un brano voluto fortemente da Lorella, ed a me mai particolarmente gradito (amo molto di più la produzione anni ‘70 dei Rufus). Lei però si impegna molto: è evidente che questo pezzo le piace un sacco. Alla fine, due piccoli bottoni le spuntano dal maglione in corrispondenza delle punte dei seni.

Controllo il cellulare per verificare i messaggi, ma è solo la seconda volta in tutta la sera: sono sorpreso da me stesso.

Sorpreso, ma stanco… perché non ho più vent’anni, e dopo due ore di prove la schiena grida vendetta.

Inizio a raccogliere le mie masserizie (cavi, perlopiù) mentre gli altri si beano del risultato conseguito. Non mi chiedono cosa ne pensi, probabilmente perché hanno sentore di cosa risponderei. Solo Roberto, ogni tanto, mi lancia un’occhiata in tralice.

Io sto pensando che, infondo, una band musicale non differisce molto da qualunque “aggregato” umano dove si assiemano due o più persone (che sia una coppia, un gruppo di lavoro, una compagnia di amici…). Vi possono essere momenti di divertimento e momenti di tensione, nonché caratteri molto diversi che si esprimono a modo loro e non sempre vanno a convergenza. Ma esiste un requisito fondamentale affinché tutto fili liscio e soprattutto duri: gli obiettivi condivisi. Se non lo sono, si può essere l’assieme più fenomenale di menti raffinatissime, ma non funzionerà mai a lungo. E infatti questa situazione non funziona, per me.

Saluto rapidamente e me ne vado. Loro mi ringraziano a profusione; cosa che non mi fa piacere, ma anzi mi fa sentire un tizio che si presenta lì a cottimo.

Quando bisogna staccare la spina e il resto del mondo non si decide a farlo, tocca a te.

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